Il 25 luglio scorso è mancata a Londra la psicoanalista Anne-Marie Sandler. Aveva 92 anni e fu, in anni diversi, direttrice del Centro Anna Freud (ex-Hampstead Clinic) e presidente della Società Inglese di Psicoanalisi.
Nata a Ginevra, la sua formazione prese le mosse dal lavoro di Jean Piaget, lo psicologo svizzero studioso dello sviluppo del pensiero infantile. Negli anni Cinquanta, approdata a Londra, fu una delle prime allieve di Anna Freud, quando quest’ultima aprì il training in Psicoanalisi Infantile. Si interessò particolarmente alle difficoltà incontrate da bambini portatori di handicap o comunque danneggiati. Studiò le modalità con cui questi bambini richiamano l’attenzione degli adulti per ottenere l’aiuto di cui necessitano per progredire nel loro sviluppo. Negli anni Sessanta si formò come analista di adulti presso la Società Inglese di Psicoanalisi. La prospettiva psicoanalitica aggiunse un importante valore aggiunto alla sua solida preparazione psicologica; la Sandler ha sempre sostenuto – e insegnato – che nella stanza di terapia interagiscono sempre due persone, con le loro aspettative ed i loro desideri inconsci e che di questo è necessario tenere sempre conto.
Alla sua attività di terapeuta si affiancò la ricerca clinica, condotta per molti anni insieme al marito Joseph Sandler. I concetti psicoanalitici vennero sottoposti al vaglio della clinica e i vari modelli confrontati tra loro, per cercare un dialogo e uno scambio tra le varie scuole di pensiero che non fosse solo un generico eclettismo. In particolare, nell’ambito infantile, fu di grande importanza la sua collaborazione con Anne Alvarez della clinica Tavistock sullo studio e la cura dei bambini cosiddetti “atipici”, portatori di difficoltà di relazione e di pensiero.
Ho conosciuto Anne-Marie Sandler nel 1985, quando sostenni con lei un colloquio per essere accettata ad un corso annuale sulla psicologia psicoanalitica dello sviluppo al Centro Anna Freud. Mi colpì la sua semplicità; il suo accento inglese rivelava le sue origini: seppi successivamente che, pur essendo la sua lingua madre il tedesco, aveva poi proseguito i suoi studi in francese. I suoi genitori avevano proibito ai figli di usare il tedesco per via delle persecuzioni razziali. Durante l’anno passato a Londra ebbi modo di apprezzare la sua chiarezza di pensiero e la profondità delle sue intuizioni cliniche. Insieme ad Anne Hurry, a Rose Edgcumbe e ad Audrey Gavshon, tutte scomparse negli ultimi anni, se ne va con Anne Marie Sandler una generazione di terapeute che sapevano coniugare la teoria, l’ossevazione e la clinica, sulla scia di Anna Freud. E che avevano portato a livelli altissimi la possibilità di usare lo strumento della propria mente per aiutare gli altri, in modo particolare i bambini. Conservo una profonda gratitudine per queste psicoanaliste che, in modo diverso, continuano ad essere fonte di ispirazione e guida nel mio lavoro.
Adriana Grotta